20/08/09






Calabresi, parlate. Il vostro silenzio uccide i bambini

Credo che nessuno possa descrivere la quotidianità dello svolgersi degli eventi in Calabria meglio di un figlio di questa terra.

Ho avuto la fortuna di parlare con Anna Rita, una giovane donna calabrese che allo stesso tempo ama e odia questo luogo dalle mille contraddizioni.

Anna Rita è dotata della sensibilità tipica di una donna che vive sulla sua pelle la continua incongruenza tra quello che vuole per il suo territorio e quello che questo dimostra invece di essere.

Le ho chiesto come è assistere impotenti allo sfregio quotidiano della propria terra.
Mi ha raccontato della spietatezza con la quale la ‘ndrangheta colpisce i figli di questa regione, una malavita che non risparmia nessuno, colpisce i complici, colpisce i rivali, colpisce gli ignavi e colpisce anche gli innocenti.
La lista delle vittime della ferocia è lunga, crudeli sono le modalità utilizzate per colpire chi ha sgarrato o chi dev’essere eliminato per saldare il debito di sangue che ogni faida esige.

Senza pietà, senza sosta, sangue da vendicare implacabile con altro sangue.

Le guerre tra le cosche e i morti che generano non fanno più neppure più scalpore sui mezzi d’informazione tanto sono diventati usuali. Si consumano ovunque in Calabria, una regione che quasi sembra essersi assopita di fronte a una tale sciagura sociale.

Lungo le traiettorie dei proiettili dei fucili, dei kalashnikov, delle 357 magnum, spesso finiscono anche bambini, mogli, nipoti innocenti, obbligati a pagare con la vita il pesante fardello di portare un cognome sbagliato o l’appartenenza geografica di una zona considerata “avversa” o più semplicemente per la colpa di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato.

La crudeltà che contraddistingue la potente mafia calabrese impone che le esecuzioni avvengano in maniera plateale, molto spesso durante i festeggiamenti di tutta la comunità, questo affinché lo sfregio apportato sia doppio e che ad ogni ricorrenza futura della festività venga per sempre abbinato il ricordo del lutto subito.
Così è successo a Papanice, un paese in provincia di Crotone, alla vigilia di Pasqua del 2008.

La piccola Gaia Gelsomina, 5 anni, era sul sedile posteriore dell’auto di famiglia quando i sicari si sono avvicinati al veicolo per uccidere il suo papà, Luca Megna, membro dell’omonima cosca e figlio del boss Domenico,detto “don Micu”, da tempo in carcere con l’articolo 41bis con l’accusa di omicidio. Evidentemente la necessità avvertita dai killer di eliminare Luca Megna era tale da giustificare una sparatoria incontrollata. Gli assassini hanno fatto fuoco all’impazzata, colpendo e uccidendo l’obiettivo del raid ma ferendo anche la moglie e la figlia. Gaia è finita in coma, all’ospedale di Catanzaro con un proiettile in testa. Il giorno seguente avrebbe dovuto ricevere da parenti e amici le sue uova di cioccolata, avrebbe giocato assieme ai cuginetti, l’innocenza della sua infanzia purtroppo è finita quel giorno.
Dopo 48 ore, il giorno seguente la Pasqua, è arriva puntuale la vendetta.
Viene ucciso Giuseppe Cavallo, 27 anni, sposato con Rosa Russelli, 21enne colpevole di essere la cugina del boss Leo Russelli, capo di una cosca avversaria ai Megna.

Ad assistere alla feroce esecuzione c’era ancora un innocente: Francesco, il figlio della coppia, un bimbo di soli due anni. Un innocenza violata, stuprata, ferocemente interrotta. La sua colpa, come quella di Gaia, è quella di essere nato in un posto maledetto che t’illude d’essere protetto in un mondo fatto di giochi e di fantasia tra l’amore dei parenti e le uova di cioccolata.
Lo scenario è uguale per entrambi gli agguati. Pieno centro del paese, pomeriggio, non una persona pronta a testimoniare di aver visto o sentito qualcosa.

Questi omicidi sono la conseguenza dell’interruzione di una transazione economica dovuta ad un progetto turistico chiamato “Europaradiso”, un investimento pubblico di sette miliardi di euro. Come si può spiegare ai bambini che il progetto per un paradiso è diventato l’inferno per dei loro coetanei?

La piccola Gaia costretta a lottare fra la vita e la morte e Francesco che ha visto trucidare il suo papà, sono solo testimoni innocenti di ciò che avviene nel mondo dei grandi a causa di qualcosa che loro non possono comprendere: la sete di potere e di soldi. Una sete che non guarda in faccia nessuno pur di essere placata, che non porta rispetto neppure verso i più innocenti degli innocenti.

Per la ‘ndrangheta nessuna persona, nessun luogo gode di rispetto se si mette a confronto con il potere del denaro.
Nell’oratorio sul Lungomare dei Mille, a Melito Porto Salvo, il 6 giugno del 2008, decine di bambini della scuola materna festeggiavano insieme la fine dell’anno scolastico. Fra di loro c’era anche il piccolo Antonino Laganà, quattro anni, che in pochi istanti è passato dallo gioco spensierato con gli amichetti al buio più totale causato da un proiettile che gli si è conficcato in testa. Un banale errore, i colpi esplosi dai killer erano tutti rivolti verso un 50enne pregiudicato che si trovava all’oratorio con la figlia di dieci anni. Per questo attentato sono stati in seguito arrestati come mandanti due ragazzi; zio e nipote di appena 30 e 26 anni. Dell’esecutore materiale nessuno ha voluto dir nulla. Melito Porto Salavo è una delle provincie di Reggio Calabria in cui l’omertà è un atteggiamento largamente diffuso, durante l’esecuzione erano presenti circa 500 persone ma ancora una volta nessuno ha visto, né sentito nulla, un popolo di ciechi e sordi, rassegnati solo a subire.
I sicari entrati in azione la mattina del 19 novembre 2008 facevano sicuramente parte di una delle cosche della piana di Gioia Tauro. A loro non interessava che la colpa di Francesco Melara, sedici anni, era solo quella di avere come padre Salvatore, un pregiudicato affiliato alla cosca dei Parrello-Condello. Quel giorno Salvatore, da poco uscito dal carcere, stava accompagnando suo figlio a scuola quando padre e figlio sono stati sorpresi da una raffica di proiettili, due dei quali hanno colpito il giovane Francesco.

La preside della scuola del ragazzo, a sua volta madre di un undicenne ferito poco tempo prima durante un agguato il cui obiettivo era il compagno della donna, definì la Calabria una “terra persa”, davanti ai giornalisti non si fece pudore di dimostrare tutto il suo disprezzo per questo luogo da lei definito “senza speranza” in cui viene permesso che si spari ai bambini con così tanta facilità e ferocia.
Il fatto di portare il cognome “Strangio” e di nascere a San Luca è il motivo per il quale un bimbo di cinque anni è caduto ferito da colpi di kalashnikov sulla porta della casa dei nonni il giorno di Natale dell’anno scorso. Se non fosse stato per l’ ambulanza a sirene spiegate che trasportava i feriti in ospedale, nessuno avrebbe saputo, visto o raccontato nulla.
La ‘ndrangheta opera sopratutto grazie alla complicità e allo strisciante consenso di quasi tutta la cittadinanza. Questa complicità si manifesta attraverso lo spesso muro di omertà nel cui perimetro queste stragi si consumano. S’è persa ogni ragione, nessun posto può più essere definito sicuro.
Lo scorso venerdì 27 giugno su un campo da calcetto nella zona nord della città di Crotone, colpi di fucile sono partiti a raffica da dietro un cespuglio diretti verso il campetto ed hanno colpito a morte un 37enne, obiettivo dell’agguato, e ferito in maniera quasi mortale anche un bambino innocente che ora si trova in fin di vita con cinque proiettili in testa. Le sue condizioni sono disperate, ma poteva andare peggio, solo per un caso non si è assistito ad una strage. Il gioco del calcio è un sogno a 11 anni ma a Crotone, come a San Luca, come in ogni maledetto angolo di questa terra persa, i sogni di un adolescente o il mondo incantato di un bimbo possono finire improvvisamente soffocati nel sangue.
E’ ora che cessi questa mattanza, ha affermato la mamma di Antonino Laganà, è ora che lo Stato faccia qualcosa di serio, è ora che i calabresi per bene parlino.
Anna Rita termina il racconto dicendo che non può più assistere in questo silenzio surreale allo spettacolo che offre la sua splendida Calabria, complici i suoi cittadini omertosi. Non si può più sopportare il continuo inghiottire di quella terra per nascondere i rivoli di sangue. Si fa presto a dimenticare, sopratutto se il sangue innocente che si mescola all’asfalto è di estranei, finché un giorno tocca ad un tuo caro, allora esigi vendetta. E la scia di sangue continua.




|||questo è il sessantanovesimo posting pubblicato in questo blog|||
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