Passato il clamore mediatico per i recenti fatti di sangue che a Kabul hanno fatto 6 vittime tra i paracadutisti italiani, premetto che non voglio essere, in questa triste occasione, l'ennesimo giudice o l'ulteriore paladino dell'informazione a commentare quanto accaduto con le solite frasi, tra le quali la più speculata (e forse più odiosa in assoluto): «Non ci sono parole per commentare!». Mi corre però l'obbligo di esternare alcuni pensieri ricorrenti in occasioni come questa, occasioni che purtroppo tendono a riproporsi con sempre maggiore frequenza.
Da uomo, la pietas cristiana per l'uccisione di sei nostri connazionali, militari di professione, senza naturalmente dimenticare le innumerevoli vittime civili, è prevalente su ogni altro sentimento, quale esso possa essere: rabbia, odio, tolleranza, vendetta. La mancata comprensione di quanto passi per la testa di questi sedicenti kamikaze (che nulla hanno, però, a che vedere con i combattenti giapponesi, guidati da regole ferree e da un codice d'onore) ci porta ad un giudizio forse sommario, certamente duro ed intransigente sulle loro azioni.
Da paracadutista, noto come la persistente ipocrisia nel definire la missione in Afghanistan "missione di pace", porti a polemiche di carattere politico che nulla hanno a che vedere con il lavoro che questi nostri commilitoni sono chiamati a svolgere quotidianamente. Le cosiddette missioni di pace lasciamole a chi, con competenza ed onore, le sappia e le voglia svolgere tra i lebbrosi dell'India, gli aborigeni del Sud America o le popolazioni ridotte alla fame nell'Africa sub-sahariana (ma non solo in questa regione, beninteso). Tra le Associazioni che operano in tale contesto, cito Emergency, la Croce Rossa Internazionale, Medici senza Frontiere e, più prossima a noi, la Caritas, sapendo di dimenticarne ulteriori decine.
Nelle missioni di pace non operano soldati addestrati ad offendere il prossimo, seppure nello specifico contesto chiamati a difendere sé stessi e la popolazione da chi, vigliaccamente, nascondendosi dietro intendimenti religiosi, mira al potere politico e, di conseguenza, economico. Alle missioni di pace non vengono inviati professionisti che si debbano muovere all'interno di mezzi blindati, guardare attorno continuamente puntando un mitragliatore e diffidando di ogni movimento inconsueto o improvviso.
Le missioni di pace non sono caratterizzate da spese logistiche faraoniche, da strategia di difesa e presidio del territorio e della popolazione. Ecco quello che i paracadutisti, ed i militari in generale, detestano, che non venga cioè riconosciuto universalmente il loro impegno professionale in zone di guerra dove si spara, ci si difende, si muore. E' per fare questo lavoro, questo sporco mestiere che, nonostante tutto e tutti, qualcuno deve pur fare, sono stati addestrati, hanno speso sudore e fatica, si sono allontanati dalle loro famiglie.
Il paracadutista, contrariamente a come è stato dipinto nell'immaginario collettivo, è un lavoratore come tanti altri, chiamato ad un lavoro diverso, più pericoloso perché, oltre ai rischi intrinseci dell'attività che svolge deve tener conto dei pericoli derivanti da chi, abbigliato con una cintura esplosiva o alla guida di un'auto-bomba ti si avvicina e si fa saltare insieme a te. E invece? Siamo considerati dei mercenari, dei guerrafondai, dei senza-cuore pronti ad aggredire il prossimo per gli obiettivi di qualche potente. E ciò non è giusto, non è corretto.
L'aspetto che maggiormente mi ha colpito, infine, nei giorni di lutto nazionale, unitamente alle lacrime che scorrevano sui volti dei militari in attesa del C-130 che riportava in Italia le bare dei loro commilitoni, è stato l'orgoglio e la dignità dimostrata dai familiari dei ragazzi uccisi nelle esternazioni pubbliche: interviste, cerimonia funebre, tutto è stato improntato alla sobrietà, al rigore, al ricordo. Parole semplici, cordiali, senza eccessi ne' polemiche, che però lasciavano trasparire un sentimento di appartenenza ad un Valore più grande di tutti noi, ad una famiglia che, nel bene e nel male, ci accoglie sempre.
Questo sentimento l'ho potuto leggere nei volti di ciascuno dei familiari dei paracadutisti caduti incrociati alla triste cerimonia nella basilica di S. Paolo fuori le mura, ma è condiviso anche da chiunque abbia un congiunto impegnato in luoghi dove si combatte, Alpino, Bersagliere o Paracadutista che esso sia.
Grazie, mamma e papà, per averci cresciuti in questo modo, per averci insegnato a credere negli ideali, nei valori più sani della nostra società, nell'amicizia e nel cameratismo (nel senso meno politico e politicizzato del termine), nel soccorso a chi è più debole ed indifeso, nella solidarietà. Dai vostri volti, dai vostri occhi, con le vostre lacrime, in questi tristi giorni ci avete mostrato che non vi abbiamo delusi.
Paolo Rossi, vicepresidente dell'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia
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